La fatica di essere sempre fuori posto
Ve lo ricordate Plessner? Io l’ho scoperto con Scheler e Gehlen nel corso di antropologia filosofica nel quale imparavo che l’uomo si determina rispetto all’ambiente circostante. Solo che dei secondi mi ricordo poco, mentre La questione della condizione umana (1961) me lo ricordo benissimo. Me lo ricorderei con più precisione se potessi rivedere i miei appunti di dieci anni fa ma non me lo ricorderei meglio di quanto ho fatto leggendo Un giorno tutto questo dolore ti sarà utile (2007) di Cameron.
L’animale eccentrico, ecco cosa è l’uomo di Plessner. L’animale che non si coincide mai, che in virtù e per maledizione di questo riflette su se stesso e che a causa di questo ride e piange quando perde il controllo di questa insanabile frattura che c’è tra il fatto di essere un corpo e avere un corpo. Fuori centro, antropologicamente lo saremmo tutti. James, il protagonista e io narrante del libro, per esempio, è così assorto dal fare i conti con la propria eccentricità dal non voler quasi radicalmente comunicare con gli altri, dal non avere energie da sprecare in scambi che da questo lo distrarrebbero. Ma quello che l’antropologia non dice e la letteratura sì è che non lo siamo mica tutti allo stesso modo.
“Avrei tanto voluto che la giornata fosse tutta come la colazione, quando le persone sono ancora sintonizzate sui loro sogni e non è previsto che debbano affrontare il mondo esterno. Mi sono reso conto che io sono sempre così; per me non arriva mai il momento in cui, dopo una tazza di caffè o una doccia, mi sento improvvisamente pieno di vita, sveglio e in sintonia col mondo. Se si fosse sempre a colazione, io sarei a posto.” (P. Cameron)
Intanto, ci sono quelli che quella frattura riescono ad ignorarla, ad eluderla, a minimizzarla, si coincidono in molti modi cercando di coincidere, per esempio, alla società: conformandosi, seguendo dei precetti, cercando di rimanere fedeli alle tradizioni, provando a far proprio ciò che ritengono “senso comune”. Poi, ci sono quelli che riescono a padroneggiarla, a usarla come scudo per diventare camaleontici: se non ci si coincide mai del tutto si può provare a coincidere di volta in volta con ambienti diversi, situazioni eterogenee, circostanze sociali del momento e del caso. Infine, ci sono quelli come James (che sì, il paragone è banale ma rimane fedele: sono come quelli come Holden) che non solo non coincidono mai con se stessi ma che a causa dell’enormità di questo misplacement originale non sono al proprio posto da nessuna parte e la cui vita è quindi riassumibile in questo: la ricerca di un posto dove non sentirsi eccentrici. è presto detto che questo posto non può esistere, perché il problema non è l’eccentricità rispetto al mondo ma rispetto a se stessi, e tuttavia cessarne la ricerca è anche più facile a dirsi che a farsi. Anzi, più ci si convince dell’impossibilità di trovarlo più ci si accanisce. Non è un caso che Cameron centri il suo racconto sulla ricerca di una casa in un “altrove” che esiste solo come piano di fuga e mai come meta.
“Voglio dire che ho lasciato scuole e posti senza nemmeno sapere che li stavo lasciando. È una cosa che odio. Che l’addio sia triste o brutto non me ne importa niente, ma quando lascio un posto mi piace saperlo, che lo sto lasciando. Se no, ti senti ancora peggio.” (J.D. Salinger)
Siccome la scuola è uno dei primi posti in cui si posa uno sguardo consapevole su se stessi (o almeno sugli altri e quindi indirettamente su stessi), di solito finisce che chi subisce la propria eccentricità o cerchi di fuggirvi — come Holden o come James che la malsopporta e dopo non vorrebbe andare all’università — oppure ci si butti a capofitto, risucchiati dal desiderio di capirne di più di quella frattura, come succede ai molti che, a forza di sentirsi a disagio nel mondo trovano conforto solo nei libri.
A me è venuto in mente Plessner perché questo subire o non subire (o farlo a gradi diversi) l’eccentricità non rientra in nessuna statistica: non è un fatto di classe, non è un fatto di genere, né di età, né di professione, né di titolo di studio ecc. e allora continuo a chiedermi da cosa dipenda, se tutti prima o poi si sentano come James, se qualcuno che si sente così poi all’improvviso o gradualmente smetta, se a qualcuno l’eccentricità inizi a pesare per qualche motivo mentre fino a poco prima non lo faceva. Perché è proprio questa la cosa bella e grande di questo come di altri romanzi: che trasformano un problema sociologico o psicologico (la storia di un disadattato, per farla breve) in un fatto universale per coloro che vi si riconoscono, in una normalità, trasformano un problema che si ha con gli altri in una normalità che si ha con se stessi, che non si può annullare e dalla quale — semmai — partire per capire come stare al mondo quando non ci si sente mai a proprio agio da nessuna parte.
“Però James, tu parli di cultura, di libri, di film: quelli è facile farseli piacere. Ma l’importante è che ti piaccia la vita, non l’arte. Sono tutti capaci di ammirare la Cappella Sistina”. “Io odio la Cappella Sistina. Odio che Michelangelo abbia sprecato il suo talento per arruffianarsi la chiesa cattolica”. “Va bene, odiala — ma fatti piacere qualcosa di reale”. “Perché secondo te i libri non sono reali?”. “Cerca di capirmi: intendo qualcosa che non sia la creazione di qualcuno, qualcosa che esista”. “Mi piacerebbe la vecchia Penn Station, ma non esiste più”. “E la Grand Central non va bene?[…]”. “Sì, mi piace la Gran Central, ma non ci si può vivere”. (P. Cameron)
L’eccentricità è una postura esistenziale. è come guardarsi sempre da fuori, come se si fosse in un video musicale. Il che è molto carino quando si ha l’età di James e di Holden e molto più complicato quando si diventa “adulti”. Seppur rimanga vero che, a sentirsi sempre fuori luogo, non si invecchia davvero mai, servono molte energie per sincronizzare il video e la musica ma nel tentativo di non farne uscire una schifezza completa — già che uno deve assistere per forza — non ci si annoia pressocché mai.
Ripensavo a Plessner e a quando ho letto Il Giovane Holden indecisa su quale facoltà scegliere all’università. Alla fine mi sono convinta che si studia filosofia per saper porre le domande, si usano le scienze sociali per abbozzare delle risposte e poi ci si rivolge alla letteratura per avere delle certezze.