Restate a casa. Delle famiglie infelici
Lo sappiamo tutti, Tolstoj suggeriva: “tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo”. Lo sappiamo tutti, tranne chi ha confezionato lo spot “restate a casa” di cui è protagonista Amadeus: un concentrato di stereotipi sulla famiglia da “Mulino Bianco” (la voce fuori campo della moglie che chiede aiuto per apparecchiare, il figlio che chiede aiuto coi compiti) condito dall’idea che le condizioni domestiche siano tutte così ironiche, armoniose e piacevoli da potersi dividere tra letture arretrate e tempo di qualità con i propri cari.
Al contrario, la necessità dell’autoisolamento e del distanziamento sociale (quando non addirittura della quarantena vera e propria per lunghe settimane) ha reso evidenti l’insufficienza di spazi pubblici adeguati ai bisogni delle comunità e l’inadeguatezza delle condizioni abitative contemporanee per la stragrande maggioranza della popolazione. Il Governo, infatti, avendo interpretato il “restate a casa” non come “restate distanti (e quindi a casa)” ma come clausura forzosa che rende reato tutto lo spazio pubblico, ha scaricato sui cittadini il peso (di classe, di genere e spesso di entrambi) di quello privato.
Nella Conferenza stampa di Sabato 28 Marzo, il Presidente del Consiglio ha ricordato fin dalle prime frasi che esiste una forma di disagio psicologico generata dallo stare a casa ma non ha né menzionato quali misure si stiano prendendo per cercare di arginare il dramma sociale pronto a esplodere nel mezzo di quello sanitario, né quanto l’impatto dell’isolamento domestico cambi a seconda del dove e con chi ci si trovi confinati. Conte ha infatti suggerito ancora una volta che gli italiani, che sarebbero tutti sulla stessa barca, “non sono abituati a stare a casa” senza però considerare che, al di là degli stili di vita, per un numero elevato di italiani è proprio la casa a non essere, paradossalmente, abitabile per lungo tempo.
Nessun allarme proviene su questo fronte dagli amministratori locali, impegnatissimi, oltre che nel fronteggiamento dell’emergenza covid19, a moltiplicare i video da sindaci-sceriffi di ogni colore politico che insultano la cittadinanza, additando presunti runner-untori senza alcun fondamento scientifico, dotandosi di super droni di sorveglianza e scatenando la caccia all’irresponsabile. Come sempre succede, la politica colta alla sprovvista si lancia nella tentazione securitaria invece che nella regolamentazione di quelle piccole possibili “valvole di sfogo” (in questo caso parchi, boschi, luoghi ampi ma sorvegliabili in cui evitare assembramenti) che potrebbero aiutare alcuni, in una circostanza del genere, a sopportare la condizione domestica. Mentre il terzo settore si è attivato come può per offrire supporto psicologico e mettere a disposizione numeri di sportello-aiuto per le donne e così assistere le situazioni più gravi, la politica in piena trance orwelliana sta trascurando le striscianti ma pure rilevanti conseguenze della reclusione in spazi angusti, insalubri o di convivenza coatta problematica. Tutti subiremo le conseguenze sulla salute fisica della vita sedentaria, ma alcuni anche quelle sulla salute psichica delle continue tensioni, dei litigi, dei possibili episodi o pensieri di violenza o di autolesionismo. Il punto non è né elencarle tutte né pretendere che si possano comparare situazioni diverse e a diverso livello di intensità, quanto sottolineare che le istituzioni, oltre a cercare il capro espiatorio nel singolo disubbidiente, dovrebbero sentire la pressione di condizioni abitative inadatte a sostenere i provvedimenti che esse emanano. Non perché sia semplice o possibile in poco tempo far fronte a tale inadeguatezza, ma perché è necessario predisporre tutto ciò che si può per raccogliere i “cocci” delle famiglie infelici il cui disagio ordinario è acuito dall’ordine di restare a casa.
Infatti, Amadeus che nello spot siede sul suo divano e ironizza, sguardo complice alla telecamera, sulla moglie che prepara il pranzo è non solo una rappresentazione di cattivo gusto delle case degli italiani, ma ne fa una caricatura insopportabile in sé e per la distanza che la separa dalle reali condizioni. Ovviamente, il problema non è solo nostro come italiani e italiane. Il boom dei divorzi in Cina, l’assalto alla polizia nello Hubei generato dall’isteria collettiva a causa delle lunghe misure di repressione, così come i casi di suicidio e violenza domestica sulle donne che si stanno registrando qui, sono la punta dell’iceberg di una diffusa emergenza abitativa che pre-esisteva alla reclusione forzata ma che quest’ultima ha reso esplosiva. Nelle metropoli europee, come Parigi o Londra, i micro-appartamenti sono così minuscoli da non lasciar nemmeno circolare l’aria al proprio interno. A Milano il prezzo degli affitti è così alto che non stupisce che chi è rimasto senza reddito sia scappato nella speranza di non pagare, o che gli studenti e i giovani lavoratori — biasimabili dal punto di vista sanitario ma non per questo condannabili da quello sociale — siano fuggiti verso sud nelle case di origine, invece che rimanere chiusi in tre in una stanza per un tempo interminabile di cui non si vede la fine. Ci sono giovani che pur lavorando (o avendo perso il lavoro) non possono pagare l’affitto, costretti a convivenze coatte con genitori che replicano all’infinito la dinamica adolescenziale, ci sono bambini costretti a stare a casa dell’uno o dell’altro genitore nell’impossibilità di spostarsi tra un comune e l’altro. Questo, solo per riferirsi al “lusso nel disagio”, perché ci sono ovviamente anche i senzatetto, coloro che sono costretti in cinque in un monolocale con tre bambini piccoli, quartieri i cui stabili sono completamente insalubri.
È facile per Amadeus dedicarsi ai compiti di suo figlio mentre la moglie cucina. Proprio come è facile dal terrazzo di famosi influencer asserire scandalizzati che chiunque esca a fare due passi è un nemico della salute pubblica, e così come è facile da appartamenti su più piani condivisi da famiglie che vivono agiatamente equipaggiate con ogni mezzo di passatempo e attrezzo per il fitness suggerire che si può fare un po’ di yoga per far passare il malumore delle giornate. Così l’hashtag #iorestoacasa è diventato il catalizzatore di condivisione di spazi privati super-safe, dove regna la protezione dalla malattia, la cura dall’isolamento, il sostegno reciproco in tempi bui. Tutte le famiglie felici si somigliano: impastano in continuazione, vedono la stessa tv sincronizzata su Netflix o si riuniscono davanti a Disney plus, si vantano di portare fuori il cane solo per lo stretto necessario adeguatamente equipaggiati di amuchina, sono cittadini modello. Fanno bene, sia a loro stessi che a chi assiste alla loro serenità, perché raccontano sui social e negli spot tv un’Italia felice e unita, l’Italia che si stringe e che resiste alle avversità. D’altro canto, quelli che, su suggerimento o meno del Presidente Conte, possono “usare questo tempo per riflettere” sono gli stessi che fanno la pizza e i selfie felici. Cioè non sono coloro che di tempo non ne hanno esattamente come prima: coloro che stanno andando comunque a lavorare perché impiegati in settori “essenziali” (e viene da chiedersi: se sono essenziali, perché sono pagati così poco il resto dell’anno?), o coloro che del tempo sanno poco che farsene perché il lavoro lo hanno perso o hanno perso un colloquio determinante, né sono quelli che continuano a lavorare come se nulla fosse ma da casa con lo stesso carico di prima, solo che ora sono costretti a farlo coi figli piccoli a cui badare o in una situazione di forte stress dato dalle legittime ansie per sé e i propri cari e l’ambiente tossico per il cervello della clausura. #iorestoacasa è il segno del civismo, secondo alcuni, ma, per senso civico, a dire #restateacasa sarebbe meglio che non fosse chi lo fa da una condizione privilegiata. In tempi difficili è legittimo anche chiedersi come mai delle famiglie felici sappiamo tutto ma non sappiamo alcunché delle famiglie infelici, né di chi se ne stia occupando.
È evidente, infine, come tutte queste circostanze siano considerate dall’opinione pubblica e dalla politica (forse persino a ragione) del tutto “marginali” e “trascurabili” a confronto dell’emergenza sanitaria legata al virus, ma è altresì evidente che nel “dopo” virus non saranno più derubricabili a secondarie. Il distanziamento sociale sta facendo emergere una quantità di situazioni individuali o di nucleo familiare problematiche e il problema non è certo che gli italiani sarebbero un popolo di “irresponsabili” o “senza senso civico” come i media e molti politici stanno provando a dipingerli. Gli italiani al supermercato, e in generale, non sono né migliori né peggiori degli inglesi che fanno la scorta dei rotoli di carta igienica e degli americani che si mettono in fila per l’acquisto di armi durante l’emergenza. Come in tutta la metà del pianeta che oggi si trova in questa situazione inedita si confrontano con incubi pubblici (la pandemia, la recessione economica) e privati (la morte, la malattia, la costrizione domestica) e se del dramma sanitario il virus è diretto responsabile, di alcuni drammi sociali è mero detonatore. Si dirà che in una circostanza di emergenza primum vivere, deinde philosophari, e sarebbe proprio così se solo non fosse che le emergenze si intrecciano e alimentano. Nella restrizione di un diritto così importante come quello di movimento si annida oggi (fra le altre) un’emergenza per nulla secondaria: il mancato diritto alla casa. Alle viste dell’ennesima crisi economica che ancora non si capisce chi pagherà, è bene tenere a mente che quello ad un’abitazione dignitosa è un diritto fondamentale, tanto quanto il reddito (di quarantena e non) e un lavoro che consenta di realizzarsi e contribuire alla società.
D’altro canto, la gerarchizzazione delle sofferenze è sempre una trappola conservatrice. Così come l’antico adagio del “non lamentarti perché c’è chi sta peggio” è sempre vero e sempre sbagliato: verissimo soprattutto oggi che il numero dei morti è così spaventoso, è sempre sbagliato perché valeva anche ieri. È il meccanismo psicologico per il quale si chiede a chi guadagna mille euro di non lamentarsi perché esistono lavori peggiori che vengono pagati ottocento, o a chi, affaticato, vorrebbe andare in pensione si rimprovera di non lagnarsi perché esistono persone che in pensione non ci andranno mai e basta, e così avanti. Accettare la condizione di emergenza è un conto, subire le diseguaglianze è un altro. Accettare che oggi sia inevitabile sviluppare disagi psichici per le condizioni di restrizione, mancanza di spazio e convivenze coatte è un conto, non impegnarsi affinché una volta finita l’emergenza ci siano affitti calmierati, abitazioni con standard adeguati, edilizia pubblica, assegnazioni degli immobili oggi tenuti sfitti a fini speculativi, è un altro. Accettare che tutte le risorse siano dedicate agli ospedali da campo per la terapia intensiva è d’obbligo, ma questo non deve far dimenticare che finanziare la sanità e il welfare significa anche finanziare la cura delle malattie mentali, i consultori, i centri antiviolenza, il lavoro di educatori ed assistenti sociali, ogni forma di aiuto a malattie di cui la società è piena e spesso non sa nemmeno come si chiamino.
Scriveva Calvino che si può “cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”; in questi mesi di isolamento molti sono alle prese col proprio privato inferno e per dare spazio a “ciò che inferno non è” le mura domestiche non bastano. Quando verrà il “dopo” sarà bene ricordarsi che la casa di Amadeus è l’eccezione non la regola. In un certo senso, da donna, dico anche: menomale.