Se il Governo decide gli affetti

Rosa Fioravante
6 min readMay 3, 2020

INTERROGARSI SULLA FASE2 SIGNIFICA CHIEDERSI PER COSA VALGA LA PENA DI VIVERE

R. Fioravante

Su cosa si riflette, si critica o si polemizza davvero quando si riflette, critica o polemizza sulla “fase2”? Al contrario di ciò che potrebbe apparire, non si discute davvero né del dcpm in sé, né dell’atteggiamento e della comunicazione di Conte, né della dialettica Stato centrale-regioni, né — in senso stretto — dell’emergenza sanitaria. Ciò di cui si discute è di per che cosa valga la pena morire, cioè, in sintesi del per cosa valga la pena vivere.

È normale che in questi giorni ogni scelta del Governo (e di Regioni e amministratori locali) sia sottoposta ad una enorme mole di discussioni: se dovessimo attenerci a ciò che dicono gli esperti semplicemente si prolungherebbe il lockdown per altre settimane, sicuramente in Lombardia, probabilmente anche altrove. Tuttavia, la Politica è l’arte di decidere sulle cose umane e non ha nulla a che fare con la tecnica, checché ne abbia detto la propaganda mediatica degli ultimi vent’anni. È, cioè, l’arte di comporre interessi in conflitto e in questo senso ogni dcpm è lo specchio degli interessi più forti in Italia oggi: prima coloro che sono riusciti ad autocertificarsi per rimanere aperti pur non essendo “produzioni essenziali”, poi i costruttori, poi le attività lombarde che riapriranno nonostante il contagio non sia stato controllato ma solo lievemente domato. Questa dinamica non ha ovviamente solo un’accezione negativa: è un interesse che ha fatto pressioni con dei risultati anche quello della società civile organizzata, che ha ottenuto (per ora) che si pensasse a delle misure per alleviare le conseguenze del lockdown sui bambini e sui giovanissimi.

Il problema è che, una volta che si affermi che qualcosa deve ripartire, la scelta sul che cosa (e dunque sul come) comporta un’implicita valutazione da parte del Governo di ciò che sia “più urgente”, “più importante” e in definitiva di quali siano i luoghi nei quali è tollerabile il rischio di contagio. Certo, vi sono delle “bussole” pratiche; per esempio, le considerazioni intorno a quali luoghi consentano di mantenere il distanziamento e quali no, ma larga parte della decisione è affidata ad interessi economici e di pressione sociale.

Non è un problema solo italiano. L’eurodeputato belga Marc Botenga ha di recente affermato “sarà presto possibile rivedere prima il proprio padrone a lavoro che i propri affetti” e non è davvero necessario addentrarsi nel dibattito italiano sul significato di “congiunti” per capire a che cosa ci si riferisca. Se non si aprisse effettivamente alla possibilità di vedere le persone care, pur con le accortezze sanitarie necessarie, si andrebbe infatti incontro ad una valutazione del tutto unilaterale da parte Governo, cioè all’idea che la vita possa esistere solo nella sua forma di mera sussistenza, nel suo orizzonte più fedelmente “biologico-riproduttivo”: avere un riparo/domicilio (senza riguardo alle sue condizioni, il che già fa problema per molti), lavorare per cibarsi, consumare individualmente se si può, continuare la specie se si è in grado e si convive con una persona dell’altro sesso.

Della fase due si discute, dunque, perché è già la prefigurazione della discussione sul quale sia la vita buona e l’ordinamento sociale più “giusto” (per chi ha interesse in questo) attraverso i quali convivere col virus per un tempo ad oggi indefinito. Se per il primo mese si potevano concepire le vite di ciascuno come in “stand by” è ora chiaro che siamo in una nuova normalità e non è indifferente come questa venga decisa per noi.

Questa pandemia ha già eliminato la possibilità di fare gran parte delle cose che rendono l’essere umano eccedente rispetto alla sua animalità — se si eccettuano la capacità di riflettere su se stesso, il timore della morte e poco altro: nella tragedia ha reso impossibile il congedo, nella serenità ha eradicato le occasioni di incontro, crescita, imprevisto. Ha fatto venir meno la possibilità di godere dell’arte, della musica dal vivo, dell’avventura e del viaggio — tutti settori i cui lavoratori sono tra i più colpiti. Ha reso impossibile manifestare e organizzarsi in assemblee e contesti pubblici, ossia il plastico e tangibile concepirsi in collettivo, ha messo fuori legge l’animale sociale aristotelico. Ha reso impossibile la scoperta di persone sconosciute prima e dunque dello stupore e della delusione che ne conseguono, impedisce l’apprendimento dal vivo e in gruppo, l’emozionarsi per l’inaspettato. Infine, inibisce permanentemente fino al vaccino la speranza di cambiare la propria condizione (sentimentale, abitativa, professionale che sia); la lista sarebbe ovviamente ancora molto lunga. Se tutti questi sono “sacrifici” necessari al contenimento del virus, non è però pensabile che la “nuova normalità” consideri un rischio accettabile quello del contagio per profitto sul luogo di lavoro e non quello del ricongiungimento affettivo (spesso dal punto di vista sanitario assai meno problematico). Non è cioè accettabile che l’autorità pubblica decida al posto dei cittadini che è meglio contagiarsi su un treno pendolari e non in una cena privata.

La fase2 non è una fase, è la configurazione di ordine sociale che ad oggi non ha una data di fine. Ci sono da sempre i sostenitori dello Stato etico e coloro che lo oppongono ma questa circostanza è del tutto straordinaria poiché lo Stato agisce come “etico” sostanzialmente qualunque cosa faccia. In questo senso, non aver incluso nemmeno un o una umanista nella “task force” a guida manageriale — cioè coloro che per vocazione e professione riflettono sul senso della vita, sulla storia delle civiltà umane e, in definitiva, su ciò che rende la vita “degna di essere vissuta” — la dice lunga sullo spazio che le istituzioni stanno lasciando al ragionamento su come convivere con il virus ma anche con noi stessi e con l’assenza di relazioni. Siamo sicuri che sia una buona idea veicolare il messaggio che si possa uscire di casa solo per produrre, vendere e acquistare? Siamo sicuri che sia una buona idea non riflettere sulle conseguenze psicologiche e sociali di mesi nei quali ciascuno è rimasto rinchiuso coi propri demoni, spesso impotente nello scegliersi le convivenze e sicuramente esposto per lo più alla dialettica con uno schermo di computer o telefono? Siamo sicuri che se la fase2 durasse più di qualche settimana sarebbe accettabile concepire gli esseri umani come meri riproduttori di un ordine economico o — peggio — che le uniche libertà ancora concesse siano quelle economiche mentre tutte quelle civili permarrebbero annientate come nella fase1?

Una cosa è certa: esistono molte forme di economia che servono l’uomo, ma noi viviamo in un sistema capitalistico dove è l’uomo a servire l’economia, il che significa che già senza crisi ed emergenza esistiamo in funzione del profitto e dell’accumulazione di pochi privilegiati. Siamo sicuri che, anche in una fase di emergenza, la Politica non possa fare nulla per riaffermare un ordine di priorità differente? Infondo, se il ragionamento qui esposto fosse valido e dunque ad oggi qualunque scelta dell’autorità pubblica significasse tout court strabordare dai propri limiti giuridici e forse anche costituzionali, tanto varrebbe scegliere per alleviare il maggior numero di sofferenze possibili invece che condannarci nella distopia del “produci, consuma, crepa (di covid o no)”.

Non se la prendano sul personale Conte, Fontana o chi per essi: criticare la fase2 significa dire la propria sulle regole che reggeranno il nostro mondo. Senza possibilità di uscire in nessun modo né di casa né dalla nostra individualità, questo esercizi di critica è, al momento, proprio come sostenevano i filosofi, l’unico modo che abbiamo per chiedere “cosa ci è consentito sperare”; è cioè è l’unica cosa che ci restituisce la progettualità negata dal virus. Che poi sarebbe quella capacità di immaginare il futuro e proiettarcisi che, anch’essa, ci distingue dalle bestie. Il punto, in definitiva, non è che si abbiano oggi tutte le risposte ma che almeno si prenda coscienza del fatto che è questa la posta in gioco delle decisioni che vengono assunte. A me, che sono un po’ umanista e un po’ scienziata sociale, la discussione sul che genere di vita siamo disposti a vivere, davvero non sembra poco.

--

--

Rosa Fioravante

PhD Student, Global Studies, from Milan, living in Turin, Comrades everywhere, Pessimismo della Ragione e Ottimismo della Volontà