Si cerca pace o si cerca libertà.
Appunti sulla seconda ondata delle solitudini.
“Ed eccoci qui. Nei nostri 45 metri quadrati di lockdown”: così concludeva laconica un’amica al telefono. I suoi 45 metri quadrati, i miei 45 metri quadrati, quelli di tante persone che conosco, quelli di un’altra che scrive sui social: “applausi per me che dopo anni che dico: “vado a vivere da sola” ho scelto proprio l’anno dei lockdown. Ma la solitudine, dice Pasolini, può essere anche una straordinaria forma di libertà. Ah no, adesso no però.” E così arrivano le prime conseguenze della seconda ondata per chi, come me, ha il lusso di non essere ancora ammalato e non avere ammalati gravi tra amici e parenti: ad esempio, la riflessione sul perché viviamo da soli; una cosa che per trent’anni ho considerato del tutto ovvia, un desiderio scontato, un sogno da realizzare persino, e che oggi invece mi interroga ed incuriosisce.
C’era una volta uscire da casa dei genitori per sposarsi. Se eri donna, uscire da casa del padre per andare in quella del marito. Ci sono volute le migliori forze del femminismo e persino, diciamoci la verità, qualche aiuto da parte della modernizzazione capitalista per combattere questo modello. Come spesso accade, quando si passa da uno schema semplice ad uno complesso, capire cosa lo sostituisce non è immediato.
Nonostante vivessi da sola da più di un anno e abbia vissuto sola per periodi abbastanza lunghi anche durante gli anni passati, quando ho iniziato a cercare casa per l’ultimo trasloco, mio padre mi ha comunque detto: “ma non capisco perché non puoi stare da tua madre, non è che hai un compagno con cui andare a vivere”. Niente di male, un riflesso condizionato ma, come si suol dire, il problema non è mai il conservatore fuori di te ma il conservatore dentro di te: nelle nostre chiacchierate di questi giorni il vivere sole, cioè quella che fino a ieri era una delle più grandi conquiste della nostra vita, è fonte di paura, di ripensamenti, di riflessione sulle proprie vittorie e sui propri fallimenti. È bastato davvero solo lo spettro del lockdown seconda stagione per farci ricredere? Per mettere in dubbio che stare soli sia meno preferibile di stare coi genitori — almeno così avevamo qualcuno con cui prendercela — o che stare soli sia meno preferibile di ritrovarsi in una qualunque delle possibili relazioni che avremmo potuto avere ma abbiamo scelto di non esplorare — almeno così non si rischiava di ammattire e poi va beh “lo fanno tutti, guarda come sono felici” –? Siamo sole o siamo libere?
È buffo come ci sentiamo chiamate in causa ogni volta che l’algoritmo ci mette sotto il naso gli articoli di costume, che si susseguono in queste ore, sui single che scelgono di convivere per il periodo del lockdown (heavy o light che sia), su come questo clima nel quale qualunque sconosciuto rappresenti una potenziale minaccia per la nostra salute renda chi vive solo sempre più solo, su come amici stringano patti di reciproca assistenza e di qualche intrattenimento sessuale per traguardare questi mesi assurdi. Questa volta l’imminente chiusura pesa, se possibile, persino di più della prima, perché questa volta in una certa misura non ci si “ritrova” chiusi: si vagliano opzioni, si soppesano situazioni, si ha una scelta per quanto limitata intorno a dove e come essere incastrati per le interminabili settimane a venire, e la scelta complica sempre le cose. Se c’è un proliferare di amici che vanno a convivere, di organizzazioni di lui e di lei che piuttosto che separarsi per mesi scelgono le sistemazioni più improbabili, o di tavoli di crisi aperti perché a convivere non ci si vuole andare pur avendo relazioni lunghissime e stabilissime, ci sono saluti fugaci di chi sa che non potrà stare insieme, c’è una domanda che quasi non si ha il coraggio di farsi ma che sta lì al posto del sempre classico elefante nella stanza: a noi, in fondo, cosa cambia?
Abbiamo fatto tutto quello che dovevamo: ci siamo istruite e abbiamo cercato lavoro, ci siamo sentite bruttine e abbiamo speso molti soldi in estetisti e cosmetici, siamo andate agli appuntamenti al buio e a quelli in piena luce, abbiamo sorriso, abbiamo pagato le bollette, abbiamo i matti che ci scrivono cose improbabili su instagram, abbiamo imparato le lingue e viaggiato, abbiamo ordinato il cibo da asporto perché eravamo troppo occupate a finire riunione, abbiamo vissuto come nelle serie tv di inizio anni 2000. Ed è stato tutto molto divertente, nel senso etimologico del termine di volgersi altrove rispetto a qualcosa. Se il lockdown ci priva delle distrazioni, il problema non può essere quello che abbiamo sotto il naso, che prima ci distraevamo per non vedere, ma la nostra disposizione d’animo nell’affrontarlo. Proprio come la cifra del nostro tempo non sono i romanzi ma i racconti brevi, il nostro non è un film ma una serie tv. O, come scrive Franco Arminio, quella condizione nella quale “si va in giro per piccole storie, incerte mete, intimità provvisorie”. Il problema è che nelle serie tv non c’è (quasi) mai la crisi economica, non ci sono mai i contratti ad intermittenza e le persone non vanno a convivere perché altrimenti non sanno come pagare l’affitto come succede nelle grandi città europee, e anche quando queste cose ci sono non ci sono 60 puntate in cui queste diventano la trama principale del racconto e sostituiscono gli aperitivi, gli incontri, i drammi sentimentali e i viaggi dove invece si svolgono le scene salienti. Nelle nostre società tutto spinge affinché diventiamo atomi, il sistema economico, le pubblicità, le piattaforme ecc. ma niente ci prepara a rimanere soli; tutto spinge per la retorica del “farsi da soli” ma nulla suggerisce come “cavarsela da soli”; tutto si muove affinché il mondo diventi un gigantesco “Modello Milano” — città nella quale i single hanno superato in numero le famiglie — ma quasi nessuno ha le condizioni economiche e psicologiche per affrontare l’isolamento. Eppure, tra una crisi economica e l’altra, tra qualche pianto e molte risate, tra famiglie problematiche e contributi non versati, abbiamo fatto davvero tutto in regola con ciò che la società sembrava chiederci. Allora cos’è questa sensazione di esserci scordate qualcosa? Di inadeguatezza di fronte all’imminente chiusura, di non aver esplorato tutte le opzioni disponibili per sfuggire a questa angoscia?
Qualcuno mi diceva: c’è una differenza tra vivere soli ed essere soli. In effetti c’è. In effetti, chi ha compagni, per esempio, non è mai solo. Non è solo chi ha una causa collettiva che tiene impegnata la vita, non lo è chi ha amici che pur vivendo lontani sono una vera famiglia, non lo è chi scrive, chi legge, chi si interroga con altri sulle cose. Ma se per essere soli si intende quella fondamentale disposizione d’animo all’incompletezza, all’irrequietezza, all’insoddisfazione, o — peggio — l’incapacità di sistemarsi in una relazione stabile, beh, la differenza tra vivere soli e l’esser soli ammonta a poco. Perché il fatto è che l’unico modo per non impazzire nella solitudine, quella contingente del vivere soli o quella esistenziale di chi vive la maggior parte del proprio tempo da single e non in una relazione quale che sia, è lasciare che questa ci coccoli. Cullarsi nel non dover mai rendere conto a nessuno delle proprie azioni, dei propri orari, del proprio modo di fare; sviluppare assuefazione alle assenze; fare così tanta fatica per raggiungere uno stadio di quiete con se stessi che non faccia sentire obbligati a uscire tutte le sere, che non faccia sentire in dovere di avere una vita coloratissima di eventi e comparse sui social o alla ricerca di continue distrazioni dai propri guai a mezzo del caos esterno. Per non impazzire nella solitudine, bisogna fare (almeno) tutto questo, ed è così difficoltoso perché quando ci si riesce bisogna esser sicuri che sia altrettanto difficoltoso tornare indietro, riaprire la porta; se fosse un processo facilmente reversibile nessuno ci si impegnerebbe tanto.
Ne “Il posto delle fragole” la solitudine è una “perfetta operazione chirurgica”, e solo questo rende bene l’idea della difficoltà, della preparazione, dello studio persino che vi è dietro:
Isak: Dov’è andata?
Sten: Lo sa, no? Via, lontano: tutti spariti. Non sente il silenzio che c’è? Una perfetta operazione chirurgica. Ogni cosa è stata asportata: più niente che dolga, più niente che sanguini o palpiti.
Isak: C’è veramente un grande silenzio.
Sten: Nel suo genere è un capolavoro, professore.
Isak: E qual è la punizione?
Sten: Qual è? Non saprei. La solita, immagino.
Isak: Cosa sarebbe la solita?
Sten: È chiaro: la solitudine.
Isak: La solitudine?
Sten: Già: la solitudine.
Isak: E non vi sarà clemenza?
Sten: Non lo chieda a me, non è compito mio.
In realtà, ciò di cui si tratta non è una punizione, ma è un prezzo da pagare: piano piano ci si dimentica come sia condividere le cose, tutte le cose, quelle quotidiane, quelle della vita, tutto quello che sta sotto la superficie. Spesso non lo si è mai imparato. Non c’è da chiedersi se è solitudine o libertà nella misura in cui, per chi va cercando la seconda, una è mezzo e l’altra è fine. Nella pellicola di Bergman lo dice Evald a Marianne: “Il bene e il male non esistono, ma solo le necessità, e si vive secondo le proprie esigenze”.
Non è per questo che il lockdown manda in crisi chi vive solo? Perché è la certificazione delle proprie esigenze. Si può accettare che la propria esigenza sia star soli o si può prendere consapevolezza che si sarebbe preferito qualcos’altro e allora divenire inconsolabili, proprio inconsolabili come quando Orfeo ne “l’inconsolabile” di Pavese dice “non si vince la notte e si perde la luce, ci si dimena come ossessi”. Non che rendersi conto di essersi scelti questo destino offra invece sollievo, semplicemente, offre l’occasione di un pensiero un po’ più autentico. Nelle cose che facciamo, nelle cose che diciamo di volere, in quelle che vogliamo davvero, si cerca pace o si cerca libertà. La pace è duratura, o almeno quando la si sceglie ci si impegna affinché lo sia, la libertà invece non è qualcosa che c’è o non c’è, qualcosa che si acquisisce una volta per tutte; come il potere, esiste solo nella perpetua tensione, non si accumula, non genera rendita, si esplica solo nello sforzo. Per questo, quella fatica, quell’esercizio quotidiano del provare a bastarsi, quella sensazione di forza e ferocia che è il desiderio dell’indipendenza emotiva bisogna continuare indefessamente ad alimentarla e se, dopo tanto sforzo, si perde, non è detto che si sia capaci di tornare indietro in ogni caso.
Come scriveva Hölderlin “nel pericolo cresce anche ciò che salva”: in queste ore, c’è un solo pensiero, terrificante e liberatorio, che può traghettarci alla fine di questa notte portandoci a continuare a chiedere a che punto sia, ma anche a non esser prigionieri dei nostri demoni. Vivere soli, che sia per tanto o poco tempo a seconda di ciascuna sensibilità, è tollerabile solo se si smette di pensare che sia una condizione transitoria. Se si concepisce il vivere soli come un intermezzo tra quando si lascia casa dei genitori e quando si trova una relazione, questo stato di cose non era sostenibile da ben prima del lockdown e del virus che costringe nel migliore dei casi alla monogamia autoimposta e nel peggiore all’astensione per legge. Dopo gli studi e le variopinte situazioni in cui si dimora tra studentati, case condivise o case autonome ma transitorie, vivere soli è una scelta che, quando si fa, si fa potenzialmente per la vita. E, certo, chi lo desidera può augurarsi che sia solo una sistemazione provvisoria, ma chi lo fa pensando che sia necessariamente tale non può che soffrirne enormemente. Ma è una sofferenza davvero necessaria?
Perché il punto è semplicemente che la vita non è una gara ad ostacoli e nemmeno una corsa a tappe. Non è una scelta tra il modello delle madri di famiglia o delle donne in carriera. Non è una competizione a chi è più felice o chi è più realizzato. La vita sono le decisioni che abbiamo preso giorno dopo giorno, ogni giorno, crescendo, pesavano un po’ di più, ma il peso vero non sta nemmeno in ciò che si fa, semmai in quello che si cerca. E anche se non sapremo mai davvero perché preferiamo star soli che stare in famiglia, perché quegli incontri non si sono trasformati in relazioni e perché alcune relazioni non si trasformano in storie d’amore, perché una città va bene e una no e perché abbiamo scelto una facoltà o un’altra, la verità è che alla fine qualcosa dentro di noi si contorce sempre in una direzione, che può cambiare in una o l’altra ma mai averle entrambe presenti allo stesso tempo. Anche quando ci si illude di cercar felicità, si cerca pace o si cerca libertà e il lockdown è semplicemente una modalità estrema di convivenza con le proprie decisioni, che questo significhi convivere con qualcuno o con se stessi.
In entrambi i casi, tuttavia, si sta in quello che Calvino chiama l’inferno dei viventi. In entrambi i casi, bisogna fare i conti con i “Due modi [che] ci sono per non soffrirne”. Il primo è aspettare che il lockdown finisca e le distrazioni riaprano, di modo da “accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più.” Oppure, “Il secondo è rischioso ed esige attenzione e approfondimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. L’inferno di quelli che hanno cercato pace non lo conosco, a volte lo invidio, vivo nella predisposizione d’animo che a me potrebbe semplicemente non toccare mai; ma se si è cercata libertà una cosa mi sento di dirla, a tutti coloro che in queste ore hanno paure e ripensamenti: se lo abbiamo fatto, in qualche modo strano e terribile e folle, ne è valsa la pena e se la pena diventa insopportabile bisogna davvero pensare che viviamo soli ma non siamo soli, viviamo sole ma non siamo sole, tanti “45 metri quadrati di lockdown” fanno un condominio. Non per consolarsi, ma per ricordarsi che anche non dovessimo mai trovare pace, trovare compagnia basta a riempire una vita, basta forse a continuare a provare a riconoscere ciò che inferno non è. A vivere, cioè, come se la solitudine non fosse transitoria ma non fosse nemmeno il nostro unico orizzonte di senso. Bisogna che continuiamo a ripeterci che il nostro destino — quello che Orfeo ne “l’inconsolabile” dice a Bacca “non tradisce. Ho cercato me stesso, non si cerca che questo” — ce lo siamo scelto e che quindi quella solitudine la eccede di continuo. Lo fa consegnandoci una vita molto più piena delle assenze che a volte ci sembra di avvertire.
In bocca al lupo a tutti e tutte, ne avremo bisogno.